Regista: Ryusuke Hamaguchi
Attori protagonisti: Hidetoshi Nishijima, Toko Miura, Reika Kirishima, Perry Dizon
Anno: 2021
Genere: drammatico

Drive my car, film drammatico sull’elaborazione del lutto e sulla cognizione del dolore, che sussurra la complessità umana delle relazioni e la capacità di sopravvivere al di là del lutto, del senso di colpa e di accettazione. Una pellicola in cui i profondi silenzi sono fondamentali e le musiche necessarie per entrare nel profondo di ogni personaggio. Incontri casuali che riaprono e suturano ferite divise attraverso cui comprendere il senso della vita. Film del 2021 diretto da Ryūsuke Hamaguchi, opera cinematografica adattata su un racconto di Murakami contenuto nella raccolta Uomini senza donne (2014). Premio Oscar 2022 come miglior film internazionale dopo aver ricevuto quattro candidature: miglior film , miglior regista, migliore sceneggiatura non originale e miglior film internazionale, oltre ad aver vinto il Golden Globe per miglior film in lingua straniera. Considerato dalla National Society of Film Critics  come miglior film del 2021. E’ stato inoltre presentato in concorso al 74º Festival di Cannes, dove ha vinto il Prix du scénario.

Yusuke ed Oto, attore e regista teatrale Lui, e drammaturga Lei, sono marito e moglie legati da un vigoroso legame sentimentale. Come fanno spesso, una notte in cui il sesso s’intreccia alle parole, la tensione erotica si trasforma per lei nell’ispirazione per creare racconti che riutilizza nella sua professione. Il loro rapporto è però, come Kafuku sa da tempo, fatto di tradimenti continui che lui fa finta di non vedere. Yusuke, che insieme ad Oto aveva già subito un fortissimo lutto per la morte della loro piccola e unica figlia, resterà completamente solo a seguito della improvvisa scomparsa della stessa per emorragia cerebrale. Ma Oto continua ad essere presente nella vita di Yusuke attraverso la sua voce, quella impressa in cassette audio con le quali la moglie, poco prima della sua morte, aveva registrato le parti di una commedia di Anton Cechov, “Zio Vanja”. L’auto rossa di Yusuke in cui ascolta le cassette audio, diventa lo scrigno privato e inviolabile di una elaborazione quotidiana del lutto, al cui forte dolore psichico si fonde anche una permanente malinconia nel sentire quella voce.

La morte di Oto recide il legame intensissimo, nonostante i tradimenti e il lutto della figlia e produce in Yusuke una rottura profonda, anche rispetto al lavoro, tanto che quando gli proporranno a due anni dalla morte della moglie di essere il regista proprio dell’opera di Cechov, inizialmente ha dei forti dubbi nell’accettare, ma poi acconsente e si trasferisce a Hiroshima per gestire un laboratorio teatrale. Qui, insieme a una compagnia di attori che parlano ciascuno la propria lingua (giapponese, cinese, filippino, e il linguaggio dei segni) lavora al progetto, ma è costretto a condividere l’abitacolo rosso con una giovane autista Misaki. Inizialmente riluttante, poco alla volta entra in relazione con l’autista e tra confessioni ed elaborazione dei traumi, trova un modo di considerare sé stesso, il proprio lavoro e il mondo che lo circonda. Misaki una ragazza con un triste passato, intriso di rimorsi per la morte della mamma (altra elaborazione del lutto che trapela nella trama del film) trova proprio nel suo lavoro di autista, il tentativo di sfuggire mentalmente da un trascorso terribile. Sarà il progressivo e lento confronto tra le anime di Yusuke e Misaki, nei loro riservati dialoghi, durante i lunghi percorsi dall’Hotel del primo al teatro, e viceversa, che sostituiranno la voce di Oto, fino a farla scomparire. Poi la commedia di Cechov. Nel fare i provini per la scelta degli attori di Zio Vanya, volutamente Yusuke sceglie Koji Takasatui, uno degli amanti estemporanei della moglie di cui aveva scoperto la relazione, e con il quale costruirà un rapporto. E poi, la presenza nella commedia di Janice Chan, ragazza ipoacusica, che interpreterà la parte di Sonya dell’opera di Cechov solamente con i gesti, quindi, al di fuori e al di sopra di ogni forma di linguaggio verbale. Nel progressivo diradarsi e dilatarsi della vicenda le parole si fanno sempre più aeree ed evanescenti, la neve della fuga finale da Hiroshima attutisce ogni suono di fronte alle macerie del passato. È un film di parole: parole scritte in un testo, recitate su un palcoscenico, mimate con le mani, create nell’estasi del piacere e dette nell’abitacolo di un’automobile. Parole usate, per narrare storie, per confessare drammi interiori, ammettere colpe e frustrazioni d’animo per ritrovare sé stessi. Un grande affresco di tre ore, tre ore intense, dense e tutte necessarie in cui la macchina da presa segue i personaggi e ne esalta i processi interiori. Un mescolarsi di arte, vissuti, vita e morte. Un tema che attraverso il grande schermo fa comprendere quanto l’intreccio tra la vita e la morte dia il sapore sottile di una vita autentica.

“Quelli che sopravvivono continueranno a pensare ai morti. In un modo o nell’altro questo continuerà. Tu ed io dobbiamo continuare a vivere così. Dobbiamo continuare a vivere.”

Marta Cascioli (casciolima@gmail.com)

 

 

 


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