Autore: Mario Calabresi
Edizione: Mondadori Strade Blu
Anno: 2022
Pagine: 171
Prezzo: 18 euro
Codice ISBN: 978-88-04-74405-4

Quanto la nostra esistenza sia mutevole, precaria, incerta, imprevedibile è senza alcun dubbio l’insegnamento che ci ha dato la pandemia COVID19. Lo sostiene anche Mario Calabresi, giornalista ed ex direttore de La Stampa e di Repubblica, in questo libro scritto durante i mesi di isolamento e reclusione della pandemia per  ricordarci che “si vive una volta sola e non bisogna sprecare un solo istante”. Se pensate di leggere imprese eccezionali di persone straordinarie, sbagliate trama. I ventidue protagonisti delle quattordici storie sono persone normalissime che hanno saputo restare fedeli a se stesse, coltivando l’imprevisto e facendo scelte che dessero un senso alla loro vita, anche quando sembrava impossibile. Certo, ci vuole coraggio a scrivere il diario della propria vita da lasciare in eredità ai propri figli quando hai 38 anni, sei incinta del terzo figlio e ti viene diagnosticato un tumore al seno. Lo sa bene Rachele, “la cui felicità si è mescolata all’ansia e al pianto” quando ha scoperto la malattia e ha deciso di tramandare ai suoi figli “un pezzo di memoria, un giacimento di ricordi e di amore” con la consapevolezza che tutti “siamo appesi ad un filo”, ma “non dobbiamo rinviare sogni, speranze e progetti”. E lo sa anche Franco, spostato da sessantuno anni con Adriana e ancora innamorato di sua moglie come quel 25 aprile del 1964 in cui ballarono insieme tutto il pomeriggio, nonostante diciotto anni di Alzheimer che hanno stravolto le loro vite. Eppure per Franco questo modo di vivere non è un sacrificio, ma “la cosa più bella che potesse fare tra tutte quelle che avrebbe potuto fare”, perché la vita “non è l’attimo presente, ma la somma dei momenti che ci hanno definito, dei ricordi che ci portiamo dentro”. E talvolta sono necessari dei cambiamenti drastici e difficilissimi, come quello di Claudia, nome di fantasia, dietro al quale si nasconde una donna che ha avuto il coraggio di ribellarsi due volte: a un uomo violento e alle leggi della criminalità. “Certe vite a Napoli sono una via di mezzo tra il Medioevo e l’Afghanistan” dice Claudia, ma aggiunge anche che “per cambiare le cose è necessario guardare la realtà dall’alto, provare ad allontanarsi, poi ci vuole un progetto di cambiamento … devi avere un’opportunità, da cogliere al volo, senza più pensarci troppo”. E sono Camila, medico urgentista del più importante ospedale di Buenos Aires, e suo marito Maurizio, contabile da più di vent’anni, genitori di tre ragazzi di 15, 11 e 9 anni, una bella casa, una vita piena di amici, che colgono al volo l’opportunità di fuggire dalla crisi argentina, aggravata dalla pandemia, per riniziare tutto da zero a Torino per il futuro dei loro figli. Camila e Maurizio sono la riposta alla domanda “su cosa ci abbia lasciato la pandemia: il senso dell’importanza delle scelte. Il coraggio di scegliere”, perché il tempo non è infinito e “l’inatteso può bussare ogni giorno alla nostra porta e allora vale la pena scegliere dove si vuole andare”.  Lo sa bene Narciso Manenti, che di anni ne ha 63 e vive poco lontano da Parigi per sfuggire alla giustizia italiana che lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di un innocente, ma che da giovane avrebbe voluto cambiare il modo e combattere le ingiustizie sociali, proprio come suo fratello Fabio, che di anni ne ha 6 in meno e da trenta gira il mondo come medico di Africa Cuamm. Due storie diametralmente opposte ma unite dalla stessa iniziale pulsione: cambiare le cose. Ma se Narciso abbandona il liceo e si unisce a gruppi eversivi compiendo una “scelta scellerata”, Fabio invece sceglierà di studiare medicina e di specializzarsi in chirurgia d’urgenza, guidato anche lui dal rifiuto dell’ingiustizia, “ma declinata in modi completamente diversi: l’ingiustizia nell’accesso alle cure, la disuguaglianza nei trattamenti” e farà “tante cose per tentare di sanare, per ridurre le disuguaglianze e le sofferenze”, in una parola “riparare”. Ed è difficile, anzi impossibile riparare agli orrori delle leggi razziali, ma non bisogna dimenticare ciò che è stato per non ripetere gli stessi errori. Lo sa bene Sami Modiano, sopravvissuto al più grande campo di sterminio nazista e anche al COVID, unico testimone della storia della comunità ebraica di Rodi. Per anni Sami è rimasto nel silenzio, chiuso nel suo dolore, con molti punti interrogativi e nessuna risposta, fino a quando ha capito che il suo compito era “ricordare tutti gli innocenti che ha visto eliminare che non avevano nessuna colpa”. E oggi Sami celebra la vita con “una forza immensa, quella di chi nuotato nella tempesta, contro la corrente, ed è sopravvissuto a dispetto di ogni previsione”. Ed è andato controcorrente anche Piero Nava, testimone oculare dell’attentato del giudice Rosario Livatino, che quel maledetto 22 settembre percorreva la stessa strada sulla sua Lancia Thema SW color canna di fucile per andare ad Agrigento in anticipo sulla tabella degli appuntamenti. Avrebbe potuto restare in silenzio, cancellare quel momento dalla memoria, fingere che nulla fosse accaduto, ma non lo ha fatto. Racconterà tutto nei minimi dettagli in un interrogatorio infinito a Giovanni Falcone nella questura di Agrigento facendo storia, perché per primo “romperà il muro di omertà che appariva inscalfibile”. Piero, che oggi non è più Nava, pagherà cara la sua testimonianza con conseguenze definitive e drammatiche che la hanno spinto a “vivere come un orso e a muoversi come un fantasma”. Il suo coraggio e il suo senso civico hanno permesso di condannare il killer di Livatino, ma hanno distrutto la sua vita. Eppure Piero non ha dubbi, rifarebbe tutto, senza nessun dubbio né rimorso perché “è andata così, non potevo fare diversamente”. E a volte bisogna guardare la vita da un’altra prospettiva come per anni ha insegnato il professor Eugenio Riccomini, docente di storia dell’arte alla statale di Milano, ai suoi studenti nel tentativo di farli conquistare da “quella vertigine creativa” che ti permette di godere dell’arte nel suo significato più vero: vite, storie e punti di vista, perché sono  i dettagli, “soprattutto quelli intimi e umani, che rendono i racconti vivi e memorabili”. E allora bisognerebbe “seguire una suggestione, farsi stupire, smarrirsi” perché quando si viaggia si deve perdere tempo, cogliere al volo l’imprevisto e trasformarlo in una opportunità “per scoprire qualcosa di inatteso e sconosciuto”. Queste solo alcune delle regole del viaggio di Corso, che considera “la vita una danza, tra mistero e cose conosciute” e “l’impensato una grande risorsa”. E sicuramente non pensava Piero di eguagliare suo padre, il partigiano Giovanni Battista Corte, dando una casa e un’opportunità a Limo, arrivato a Monterosso all’inizio del lockdown in cerca di lavoro. E’ come diceva Michele Fusco, “bisogna scegliere nella vita, concentrarsi su ciò che ha più senso e più valore”. E quello che ha senso per Alì , fuggito dall’Afghanistan in un viaggio sconvolgente e drammatico, che sarà lo spartiacque della sua esistenza portandolo in Italia a Torino a 5255 chilometri da dove è nato, è avere il coraggio di rinascere e “fare pace con il mare”. Il libro si chiude con la lettera di Laura, da vent’anni malata di SLA, capace di vedere la bellezza della vita, smettendo di rimpiangere ciò che non si ha più per apprezzare cio che è rimasto, dando “valore ai piccoli pezzi della vita”, come faceva per le briciole nonno Mario “perché sprecare una briciola – anche una sola -, per lui, era un delitto”. E aveva ragione.

Erika Poggiali (erikapoggiali2@gmail.com)

 

 

 


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