I ricercatori dell’ospedale Sick Children di Toronto hanno valutato le risposte di 77 genitori i cui figli minorenni non avevano più possibilità di guarire da un tumore e le hanno confrontate con quelle di 128 medici, infermieri e assistenti sociali presenti in reparto. Mentre il 55% dei familiari voleva procedere con ulteriori linee di chemioterapia (sebbene consapevoli che avrebbe peggiorato la qualità di vita dei bambini), solo il 16% del personale ospedaliero propendeva per la stessa scelta.
E’ fondamentale, in campo pediatrico, definire in modo ancora più preciso l’impatto che trattamenti chemioterapici, anche di tipo palliativo, possono avere sulla qualità e quantità di vita dei bambini in modo che il personale sanitario possa offrire ai genitori informazioni più dettagliate per poter condividere le decisioni di fine vita. Questo è ancor più importante considerando che, come già dimostrato in letteratura, esiste un ritardo medio di tre mesi nel riconoscimento da parte dei familiari della irreversibilità della situazione del proprio figlio malato di cancro. Tre mesi (ma spesso molti di più) in cui l’obiettivo di medici e genitori è assolutamente discordante: per i primi risulta fondamentale assicurare una buona qualità di vita tenendo sotto controllo i sintomi disturbanti; per i secondi rimane ancora importante proseguire una terapia ‘attiva’, spesso richiedendo di sottoporre il proprio figlio a regimi di chemioterapia sperimentali.
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